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Nel corso del 2021, gli investimenti nel settore immobiliare italiano hanno toccato quota 10,3 miliardi di euro, in crescita del 13% rispetto al 2020, secondo l’analisi di Cbre. Non parliamo di compravendite residenziali private, ma degli investimenti messi a segno in prevalenza dai grandi fondi, sia nazionali sia esteri, questi ultimi protagonisti degli scambi con circa il 70% del volume complessivo.
A prendersi la fetta più importante è la logistica (2,7 miliardi), in sostanza magazzini e centri di stoccaggio merci, ormai diventati un asset nevralgico perché legati sia alle attività industriali, sia al boom dell’e-commerce, che deve portare le merci nelle città in modo sempre più veloce.
Segue il settore uffici (2,3 miliardi), poi gli hotel (1,9 miliardi) e con 1,5 miliardi arriva il segmento retail, che riguarda tutti gli immobili che hanno a che fare con il commercio: negozi su strada, centri commerciali, outlet, retail park.
Come si muovono i rendimenti
I due anni di pandemia che abbiamo alle spalle hanno messo il commercio a dura prova, perché gli esercizi (compresa la ristorazione) hanno potuto aprire a singhiozzo e perché i consumatori hanno dirottato una buona fetta degli acquisti rivolgendosi all’e-commerce e al delivery.
Inoltre, la gran parte dei tenant (cioè i vari brand che affittano i negozi), dovendo affrontare il calo dei ricavi, hanno in qualche modo costretto i proprietari degli edifici a rivedere i canoni di affitto, al ribasso o quanto meno puntando a forme più flessibili di pagamenti.
Il risultato è che, per i grandi investitori, puntare sul segmento immobiliare “commerciale” è diventato più rischioso, di conseguenza sono saliti i rendimenti di questo. I centri commerciali, prima della pandemia, mostravano un rendimento intorno al 5% e oggi hanno abbondantemente superato il 6%. La logistica invece ha avuto un movimento opposto e dall’8% toccato intorno al 2012, adesso è scesa intorno al 5%. I negozi nelle high street delle grandi città presentano sempre rendimenti inferiori, intorno al 3%, e questo non tanto per la dinamica dei consumi, ma sopratutto per il prezzo generalmente alto che l’investitore deve sborsare per l’acquisto.
Il caso dei “retail park”
Un segmento in particolare, però, è quello su cui stanno puntando diversi soggetti: i “retail park”. Con questa definizione si intende un parco commerciale all’aperto, caratterizzato dalla presenza di numerose attività (mix di commercio e ristorazione), un unico parcheggio e una gestione unitaria.
In altre parole, sono quelle zone commerciali dove “le locomotive” che catturano i clienti sono alcuni marchi non alimentari, di medie-grandi dimensioni, ad esempio un Decathlon, un MediaWorld, un Leory Merlin, attorno ai quali lavorano altre attività più piccole. Ma mai piccolissime. Sembra simile, ma è una struttura diversa rispetto al classico centro commerciale, che si presenta come un grande involucro completamente al chiuso, caratterizzato dalla presenza di un ipermercato alimentare, attorno a cui si sviluppano tanti negozi, anche di piccole dimensioni.
Nuove abitudini di consumo
Quali sono i punti di forza dei retail park? Dal punto di vista del consumatore, sono sempre ben accessibili, posti lungo grandi arterie di comunicazione, ma non obbligano a “chiudersi” dentro il centro, magari per raggiungere un solo negozio. Permettono la classica passeggiata di shopping, dove si ispezionano più vetrine, ma anche soltanto di parcheggiare e raggiungere rapidamente il punto vendita desiderato. In tempi ancora incerti, i consumatori preferiscono una modalità di acquisito all’aria aperta.
Sul fronte dei proprietari e delle società di gestione, i retail park sono maggiormente flessibili, perché essendo all’esterno possono spesso trovare altro spazio di espansione o comunque permettono più rapidamente di modificare l’utilizzo degli spazi.
Infatti durante la pandemia, che ha modificato le abitudini di consumo delle persone, uno dei grandi temi di riflessione di outlet, parchi commerciali e shopping center è stato quello di capire quale fosse il giusto “brand mix” da proporre all’utenza.
Per fare qualche esempio, per catturare un target trasversale, che va dai giovani alle famiglie, oggi è indispensabile avere una proposta food adeguata, cioè varia e di buon livello (non solo il semplice fast food), è indispensabile un po’ di entertainement (non per forza il cinema multisala, ma anche l’organizzazione di eventi tematici per bambini, per sportivi, ecc.) e occorre catturare sempre più marchi, perché molte insegne dell’abbigliamento “fast fashion”, da Zara ad H&M, ormai hanno bisogno di negozi meno ampi come dimensioni, dal momento che tanti acquisti si fanno tramite e-commerce o con il “click and collect” (compro on line, ritiro in negozio). Tutta un’attività di rebranding che i “retail park” permettono di realizzare più agevolmente rispetto ai centri commerciali tradizionali, che risultano più rigidi.
“Abbiamo visto una forte ripresa degli investimenti nel 2021, che ha battuto il record segnato nel 2019, e crediamo che questa fase di crescita proseguirà” ha commentato Chris Brett, Managing Director, EMEA Capital Markets di CBRE. “Gli investitori stanno iniziando nuovamente a vedere opportunità nel Retail e ci aspettiamo un maggiore afflusso di capitali in questo comparto nel 2022, in particolare nei segmenti Retail Park e Grocery”.