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Sul mercato americano, a 15 anni esatti dalla crisi dei “subprime”, sta per esplodere una nuova bolla immobiliare? Secondo Elon Musk, sì.
“Il real estate commerciale si sta sgretolando rapidamente. E il prossimo step riguarderà il valore delle case” ha scritto in un tweet l’eccentrico capo di Twitter (e di un lungo elenco di altre imprese).
I timori sul mercato americano
Musk non è noto come esperto di mercato immobiliare. Ma in realtà la sua opinione si rifà a timori ben presenti nel mercato americano, supportati da diversi report. Uno dei più recenti è firmato dalla banca d’affari Morgan Stanley. Negli Usa, più che in Europa, è ancora viva la scottatura legata alla crisi del 2006-2008, che finì per mandare all’aria diverse banche, tra cui Lehman Brothers.
Naturalmente il contesto è diverso e le difficoltà sono collegate ad aspetti di oggi. Ma la paura resta la stessa.
Il segmento “uffici”, sorvegliato speciale
Buona parte del problema proviene dal segmento “uffici”, che secondo una stima di Swiss-Re copre almeno un terzo del “commerciale americano”.
Da Dallas a Philadelphia, da Chicago a Miami, il ricorso frequente allo smart working ha lasciato vuote migliaia di scrivanie e di superfici, che non si riescono più a riempire. Questo comporta un calo dei ricavi per i proprietari (meno flussi d’affitto) e valori dei fabbricati in calo. I prezzi, infatti, nel primo trimestre dell’anno sono girati in negativo. Era la prima volta da un decennio. E proprio Morgan Stanley sottolinea che potrebbe anche verificarsi uno scivolone vicino al 40%, come accadde nel 2008.
Ma non ci sono solo gli uffici: soffre anche il “retail” (negozi e shopping center) che dopo la pandemia, tra timori dei contagi e e-commerce che avanza, fatica ancora a recuperare i volumi pre pandemia a livello di footfall (ossia il numero di persone che visita i negozi). Anche qui, un trend sfavorevole per le proprietà.
L’analisi di Morgan Stanley
La banca d’affari Morgan Stanley ha fatto qualche conto rispetto ai debiti dei soggetti che possiedono i grandi complessi del real estate commerciale.
Questi hanno in corso 1,5 trilioni (miliardi di miliardi) di finanziamenti ipotecari in corso, prossimi alla scadenza nel giro di un biennio e quindi bisognosi di essere rifinanziati. Oggi, però, gli interessi in vigore nel mondo bancario sono almeno 3,5-4 punti percentuali più alti, rispetto a quando i prestiti erano stati siglati. E questo, ipotizzando che la Fed non intervenga in futuro con ulteriori strette monetarie.
Il rifinanziamento potrebbe essere troppo oneroso oppure qualche fondo immobiliare o qualche grande proprietario di immobili potrebbe finire in default, dando il via a una catena che rischia di coinvolgere il sistema finanziario. Buona parte di questo debito, infatti, è in capo a tante banche regionali statunitensi.
Il ruolo delle banche statunitensi
Occorre ricordare che a marzo, negli Stati Uniti, sono fallite tre banche locali, benché non direttamente legate al mercato immobiliare: Silicon Valley Bank, Signature Bank e Silvergate Bank. Dunque l’attenzione è massima. Eppure i presupposti per un cortocircuito di sistema sembrano esserci.
Le banche, come visto sopra, rischiano di andare incontro a sofferenze. E se la banca soffre, deve chiudere i rubinetti del credito ed erogare meno mutui, alle imprese, ma anche alle famiglie. Che così faticano di più a comprare casa. Inoltre, la stretta al credito è già in atto, poiché la Fed continua a tenere alti i tassi di interesse per frenare l’inflazione. In questo modo i mutui diventano più cari e meno famiglie hanno possibilità di comprare casa.
Quando cala la domanda residenziale, ovviamente i prezzi delle case iniziano a scendere. E questo innesca una spirale, perché non deprime solo il mercato immobiliare a livello di compravendite, ma ha effetti sulla finanza, perché si sgonfia il valore degli immobili ipotecati, a garanzia dei mutui esistenti, e di quegli immobili “impacchettati” come sottostante per prodotti finanziari legati all’immobiliare (un tipo di finanza derivata che, per fortuna, è molto meno usata rispetto a inizio secolo).
Al momento ci sono i timori, ma non ancora i segnali di un calo dei prezzi delle case. Zillow, il più grande portale americano di annunci immobiliari, ha registrato valori ancora in crescita in aprile e ha confermato che, per quanto una frenata sia probabile, a fine 2023 i prezzi dovrebbero chiudere con un rialzo compreso fra il 3% e il 4%. Naturalmente, la cautela è d’obbligo.
Che cosa potrebbe peggiorare lo scenario?
Lo spettro della recessione. Per ora, l’ipotesi è lontana; il Pil americano è salito nel primo trimestre dell’anno del +1,1%. Segno positivo, dunque, benché tantissimi commentatori e centri studi abbiano già rimarcato il rallentamento in atto. Il Pil dell’ultimo trimestre 2022 aveva corso molto di più: +2,6%. E secondo la maggior parte delle fonti, almeno per tutto il 2023, la crescita rimarrà contenuta, con una chiusura d’anno che dovrebbe restare intorno all’1%, con qualche decimale in più o in meno, a seconda dei report.
Un livello, quindi, che non autorizza a parlare di retromarcia dell’economia, ma che lascia ombre sul futuro potere d’acquisto e attitudine alle spese delle famiglie.