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Il “retail” italiano, come asset class, sembra sparito dai radar di fondi e altri tipi di investitori istituzionali. Detto altrimenti, negozi, centri commerciali, outlet e retail park di casa nostra non sono, al momento, un “oggetto” interessante da mettere in portafoglio, nonostante il Belpaese sia, nell’immaginario, il Paese per antonomasia della moda e del buon cibo.
Eppure, si sa, le dinamiche del real estate non seguono l’immaginario, ma i ricavi, i rendimenti e le prospettive economiche.
In Italia, investimenti sotto il miliardo
I dati non lasciano spazio a dubbi. Secondo un recente report redatto da Scenari Immobiliari, il segmento “retail” in Europa, nel corso del 2022, ha catturato 40 miliardi di euro di investimenti, con un incremento di circa il 20% rispetto al 2021.
I dati ricalcano quelli elaborati da Bnp Paribas Real Estate, secondo cui:
- la Germania ha beneficiato di 9,4 miliardi di investimenti, circa uno in più rispetto al 2021;
- la Francia 5,6 miliardi, che vale quasi il raddoppio rispetto all’anno precedente;
- la Spagna 4,3 miliardi, contro i 2 circa del 2021 e seguono via via tanti mercati, tra cui Danimarca (2 miliardi), Svezia, Norvegia, Polonia e Paesi Bassi, tutti con volumi almeno superiori al miliardo di euro;
- l’Italia invece arretra e dai circa 3 miliardi del 2018 scende a 980 milioni, dato che risulta inferiore di quasi il 26% rispetto al 2021 e del 50% sul 2019.
A livello regionale, segnala Scenari, la Lombardia concentra più del 25% del totale degli investimenti, circa 270 milioni di euro, seguita da Veneto ed Emilia Romagna, rispettivamente con quasi il 15% (134 milioni) e il 10% (84 milioni). Anche questo un segnale negativo, dal momento che il Nord continua a trainare il settore, mentre il Centro-Sud fatica.
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Si guarda alle high street e ad operazioni opportunistiche
L’attenzione degli investitori istituzionali si è andata a concentrare sulle high street di Milano (via Montenapoleone), Venezia (calle San Moisè) e Roma (via del Corso), positivamente condizionate dal ritorno dei flussi turistici internazionali ai livelli pre-pandemici.
Focalizzando l’attenzione sulle grandi superfici commerciali (shopping center, outlet, retail park), gli investitori hanno privilegiato occasioni di natura opportunistica e value-add, che hanno riguardato asset immobiliari quali centri commerciali secondari, in una serie di territori situati prevalentemente nel nord della Penisola (province di Brescia, Modena, Padova, Reggio Emilia e Varese).
Spiegato in termini semplici, le categorie immobiliari “opportunistic” e “value-add” sono quelle che riguardano immobili che vengono ceduti a prezzo scontato, oppure in stato di abbandono o comunque che necessitano di lavori di riqualificazione.
Asset che si presuppone di comprare a buon prezzo, sistemare, e poi eventualmente rivendere sul medio periodo, una volta centrata la rivalutazione del prezzi.
Sono immobili dai quali, a differenza di quelli “core”, non ci si attende un flusso di cassa importante.
La disaffezione per il “retail” di casa nostra emerge anche da un recente “survey” condotta da Cbre tra un panel di investitori professionali, che rispetto al mercato italiano, tra le preferenze di investimenti, indicano per primi i settori “uffici”, “logistica”, “residenziale” e “alberghiero”.
Per il “retail”, anche Cbre conferma che continuano a destare attenzione le principali vie del commercio delle grandi città, proprio perché “le strategie di espansione dei brand saranno più selettive e si concentreranno sempre di più su high street e gallerie/parchi commerciali prime”.
In altre parole, sia gli investitori, sia i marchi della moda o della ristorazione, puntano sulle zone sicure, forti di flussi di passaggio importanti.
Dati deboli dal commercio al dettaglio
Lo scenario macro economico è incerto un po’ dappertutto. Il caro energia, l’inflazione, il conflitto russo-ucraino, la Cina che va a singhiozzo, sono variabili che destano preoccupazione ovunque.
Ma sulla tenuta della ripresa italiana, e soprattutto sul tenore dei consumi di casa nostra, le nubi sono sempre più dense. Il nostro Paese sconta alcuni problemi cronici, ossia un livello delle retribuzioni molto basso e la consueta spaccatura tra Nord e Sud.
Lo certificano le statistiche europee di Eurostat. Secondo l’ultimo dato, relativo ai salari, l’Italia con un reddito di circa 30.000 euro l’anno si posiziona un po’ sotto la media e dietro a Lussemburgo, Danimarca, Irlanda, Belgio, Austria, Svezia, Germania, Finlandia e Francia.
E un’indicazione interessante si ottiene anche guardando all’ultima pubblicazione di Eurostat relativa al commercio al dettaglio, che nell’Ue è cresciuto in volume dello 0,7% rispetto al 2021.
In Italia, invece, il dato è negativo dello 0,8%, certifica l’Istat. Le vendite sono cresciute come valore, dal momento che i prezzi sono aumentati e dunque la spesa totale delle famiglie risulta superiore (+4,6%), ma i volumi sono diminuiti, ossia abbiamo acquistato meno alimentari, beni e servizi.
di Adriano Lovera