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Il contratto di appalto è sicuramente tra quelli più utilizzati in ambito edile o, in generale, quando si vuole realizzare un’opera. I guai però sono sempre dietro l’angolo e, spesso, accade che l’opera non venga realizzata correttamente costringendo così il committente a rivolgersi al giudice per tutelarsi. Esempio pratico in tal senso è la recente ordinanza n. 31975 del 17 novembre 2023 pronunciata dalla Corte di Cassazione.
Cos’è il contratto di appalto
Sicuramente è utile ricordare a chi legge in cosa consiste il contratto di appalto. Ebbene esso consiste in un accordo nel quale figurano due parti: da un lato il committente (cioè chi paga per avere l’opera) e dall’altra chi la esegue, l’appaltatore.
Nel Codice civile tale tipologia contrattuale è disciplinata negli articoli 1655 e seguenti. In particolare, per quel che qui interessa, gli articoli da tenere a mente sono il 1668 ed il 1669, aventi ad oggetto la garanzia per i difetti dell’opera realizzata.
Il caso
Una società chiede ad un’impresa di realizzare un capannone industriale stipulando per tal scopo un contratto di appalto. Terminata l’opera, però, la società committente si accorge di danni derivanti dall’errata realizzazione del capannone e pertanto chiede al giudice di condannare l’impresa al risarcimento dei danni derivanti dalle spese anticipate dalla società per eliminare i vizi riscontrati sul manto di copertura della struttura nonché di quantificare gli ulteriori lavori ed opere da eseguire per una corretta esecuzione dell’opera.
La vicenda arriva in secondo grado dove, i giudici continuano ad affermare che la responsabilità dell’appaltatore è consistita solamente nelle somme già sborsate dalla società committente per riparare i danni subiti e pertanto solo quelle somme sono dovute alla società committente.
Sulla scorta, pertanto, di una vittoria a metà, la società decide di fare ricorso in Cassazione ritenendo non soddisfacente il risarcimento stabilito dalla corte territoriale, pari ad euro 28 mila circa, non avendo tenuto la stessa in considerazione la stima fatta dal consulente tecnico d’ufficio, il quale ha invece previsto una spesa, per l’integrale eliminazione dei vizi, di 98 mila euro.
La responsabilità dell’appaltatore
La Cassazione, letto il ricorso della società, lo accoglie completamente.
In particolare, il ragionamento della Corte si basa su alcuni principi basilari in tema di appalto.
Il committente che agisce per i vizi dell’opera ai sensi del citato articolo 1668 del Codice civile deve dar prova solamente dei vizi riscontrati, nei modi e nei limiti previsti dallo steso articolo nonché dal successivo articolo 1669, nonché fornire la prova che a causa dei lavori errati vi siano stati dei vizi.
Dall’altro lato, spetta invece all’appaltatore dar prova di aver dato esatta esecuzione al contratto e aver realizzato le opere a regola d’arte, nonché che eventuali vizi o difformità siano dipesi da altri fattori o cause.
A ciò si aggiunga che il risarcimento dovuto dalla ditta che ha sbagliato i lavori non può consistere solamente nel ristoro dei danni patiti dal committente ma, al contrario, deve comprendere anche tutte le spese necessarie affinché il lavoro previsto nell’appalto sia realizzato a regola d’arte.
Ne deriva pertanto che, nel caso in esame, l’impresa non solo dovrà sopportare le spese sopportate per ovviare temporaneamente agli inconvenienti accertati, ma anche quelle che consentano il risarcimento dell’intero pregiudizio subìto mediante l’eliminazione definitiva dei difetti costruttivi riscontrati, cioè il rifacimento integrale del manto di copertura del capannone.