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Un architetto, che si era impegnato nel rifacimento integrale dell’immobile preso in affitto per adeguarlo al contesto di studio professionale, riceve un avviso di accertamento in cui gli viene contestata l’indebita detrazione sulla componente I.V.A. dell’acquisto del materiale per la ristrutturazione.
Secondo l’Agenzia delle Entrate, la ristrutturazione rappresenta una spesa avente carattere straordinario e, dunque, di competenza del proprietario dell’immobile, e non dell’affittuario; l’operazione, pertanto, nasconderebbe un intento elusivo dell’imposta.
La controversia, risolta in favore dell’architetto in primo grado e dell’Agenzia in appello, approda avanti la Corte di Cassazione.
I costi di ristrutturazione, imponibile fiscale e detrazione dell’I.V.A: quando è prevista?
Punto di partenza della riflessione è che – come chiarito dalla stessa Agenzia delle Entrate e dalla giurisprudenza – le spese di ammodernamento, ristrutturazione e manutenzione di immobili, ancorché in proprietà di terzi – ossia soggetti diversi da colui che paga i lavori – sono deducibile dal reddito nel limite del 5% del costo complessivo dei beni materiali ammortizzabili risultante ad inizio dell’anno, con un’eccedenza deducibile in quote costanti nei cinque periodi di imposta successivi (Agenzia delle Entrate, risoluzione 99/E/2009; Corte di Cassazione, sentenza 7226/2020).
Peraltro, dal momento che, in base all’articolo 1576 del Codice Civile nel rapporto locatizio le spese straordinarie sono generalmente a carico del proprietario, la deducibilità da parte dell’affittuario presuppone la stipula, in deroga, di un contratto recante data certa.
Al contempo, il diritto alla detrazione/rimborso dell’I.V.A. sugli interventi condotti dall’affittuario e aventi ad oggetto un immobile non suo continua a generare dibattiti, apparentemente non risolti dalla giurisprudenza.
Basti pensare che, solo due anni fa, la Suprema Corte aveva ammesso la spettanza del rimborso I.V.A. per opere di tal genere, a condizione, ovviamente, che fosse provato il nesso di strumentalità con l’attività d’impresa o professionale dell’affittuario (Cassazione Civile, ordinanza 22708/2020).
Al contrario, con la decisione in commento, la medesima Corte pare esprimersi in maniera opposta, negando il diritto alla detrazione I.V.A. (Cassazione Civile, ordinanza 14853/2022).
Un principio comune: adattamento o ristrutturazione dei locali?
Punto di incontro delle suindicate decisioni – e ripreso pure dalla pronuncia in commento – si rinviene nell’entità dei lavori operanti sull’immobile.
Il diritto alla detrazione dell’I.V.A. potrebbe essere, infatti, negato qualora il professionista realizzi una radicale ristrutturazione che, esorbitando dal mero adattamento dell’immobile alle esigenze connesse all’attività professionale che sarà nello stesso esercitata, implichi il venir meno del requisito di inerenza.
Basti pensare all’esempio di un professionista che, per ristrutturare la propria abitazione beneficiando della deduzione delle imposte dirette e della detrazione ai fini I.V.A., conceda in locazione l’immobile a un’associazione professionale di cui fa parte, esegua i lavori e, una volta terminato l’intervento, risolva consensualmente il contratto.
In tal senso, l’unica possibilità sarebbe dimostrare che l’attività professionale non abbia poi concretamente potuto esercitarsi per cause estranee al contribuente (Cassazione Civile, sentenza 11533/2018).
In altri termini, «Benché in campo Iva il giudizio di congruità non escluda il diritto alla detrazione, viceversa lo condiziona qualora l’antieconomicità dell’operazione sia manifesta e macroscopica e dunque esulante dal normale margine di errore di valutazione economica, tanto “da assumere rilievo indiziarlo di non verità della fattura o di non inerenza della destinazione del bene o servizio all’utilizzo per operazioni assoggettate ad Iva”».
La sentenza
Sulla base dei presupposti sopra esposti, il ricorso dell’architetto non può che essere rigettato.
Osserva, infatti, il Supremo Collegio che «…nel caso concreto la CTR ha ritenuto fondata la pretesa dell’Erario perché l’ammontare degli esborsi per la ristrutturazione confligge con un canone di economicità che non trova obbiettiva giustificazione in rapporto alla entità elevata dei costi sostenuti. La CTR si è, pertanto, curata di accertare la non inerenza dei beni rispetto all’attività professionale svolta, valorizzando la descrizione delle opere contenuta nel capitolato allegato al contratto di locazione ed evidenziando come le stesse non siano consistite “in un semplice adattamento dei locali alle esigenze connessa alla attività professionale del locatario”, piuttosto sostanziandosi in una “ristrutturazione completa e radicale dell’immobile, comprensiva dei lavori di rimozione e rifacimento del manto di copertura dell’edificio, smantellamento e rimozione degli impianti tecnologici, demolizione e rimozione della pavimentazione interna ed esterna, delle vasche di raccolta e trattamento dei liquami e delle connesse tubazioni”. Dette opere “all’evidenza esorbitanti dal mero adattamento” implicano il venire meno del requisito della pertinenza della spesa allo svolgimento della libera professione del ricorrente».
*Questo contenuto ha scopo informativo e non ha valore prescrittivo. Per un’analisi strutturata su ciascun caso personale si raccomanda la consulenza di professionisti abilitati.